Dal 2035 stop alle auto a benzina e diesel. Cosa ne pensano gli automobilisti?

Dal 2035 scatterà il blocco per le vendite di automobili nuove a benzina e diesel. Il via libera è stato deciso dal Consiglio dei Ministri dell’Ambiente dei Paesi dell’Unione Europea. Si tratta di una misura che fa parte dell’ambizioso piano di azione per contrastare il cambiamento climatico, ma non è esente da polemiche, e il giudizio degli automobilisti italiani è diviso. C’è infatti chi pensa che questo sia l’unico modo per ridurre le emissioni di gas serra e chi invece afferma che i tempi siano troppo stretti, con il rischio di demolire l’intera filiera automotive italiana.

I motori tradizionali sono “insostituibili”?

Secondo una ricerca del Centro Studi di AutoScout24 il giudizio non è positivo, anzi, quasi sette utenti su dieci valutano la misura negativamente, con i motori tradizionali che si confermano allo stato attuale ‘insostituibili’. Ma quali sono le motivazioni? Innanzitutto i tempi. Per quasi otto utenti su dieci, il 2035 è una data troppo ravvicinata per un cambiamento così epocale, un parere in linea con i Paesi che chiedono di posticiparne lo stop al 2040. Sul fronte dei costi, per la maggior parte degli utenti (90%) il prezzo delle auto elettriche è troppo alto e distante dal budget medio a disposizione degli automobilisti per l’acquisto di un’auto, dichiarato dagli intervistati dalla ricerca pari a circa 24.600 euro

Le barriere all’auto elettrica

Ma la vera barriera è di tipo tecnologico, e pochi credono che fra 13 anni ci sarà una vera ‘rivoluzione’ su questo fronte. Secondo l’86% degli intervistati, infatti, il livello tecnologico delle auto elettriche non è ancora adeguato in termini di batterie e autonomia, senza contare la carenza dell’infrastruttura italiana delle colonnine di ricarica, indicata dall’83% del campione. Una fotografia, quella scattata dalla ricerca, che poco si adatta alle abitudini degli automobilisti, dato che l’83% usa l’auto almeno cinque giorni a settimana, oltre quattro su dieci percorrono in media più di 20mila km l’anno e molti per spostamenti lunghi.

Come promuovere il passaggio verso una mobilità più green?

Poi c’è anche un aspetto ambientale, riporta Adnkronos. Solo pochi sostengono, il 7%, che le auto elettriche siano veramente green considerando tutto il ciclo di vita del prodotto, ed esprimono dubbi in merito al fatto che la misura servirà realmente a ridurre le emissioni e l’impatto ambientale (19%).
Inoltre, gli intervistati pensano che avremo il problema di come smaltire le batterie (84%).
Al contrario, i favorevoli pensano che solo con interventi decisi si potrà promuovere il passaggio verso una mobilità più green. Ma per il momento rappresentano la netta minoranza.

Le stampanti inkjet sono più ecologiche: 1,3 milioni di tonnellate di CO2 risparmiati

Le stampanti con tecnologia a getto d’inchiostro potrebbero ridurre le emissioni di oltre il 50% rispetto ai livelli attuali, e potrebbero far risparmiare 1,3 milioni di tonnellate di anidride carbonica (CO2). Se tutti passassero alle stampanti inkjet le emissioni diminuirebbero infatti del 52,6% rispetto ai livelli attuali. Un po’ come se sulle nostre strade circolassero 280.000 auto in meno all’anno. La tecnologia inkjet può infatti consumare fino al 90% in meno rispetto alle soluzioni laser. È quanto emerge da una ricerca commissionata da Epson e svolta dal professor Tim Forman dell’Università di Cambridge. Per un futuro a emissioni zero, si legge nello studio, è necessario che il consumo energetico mondiale associato all’uso dei vari dispositivi diminuisca drasticamente: servirebbe infatti una riduzione media del 25% entro il 2030 e del 40% entro il 2050.

Per la stampa di documenti è possibile un futuro net-zero

“Questa ricerca dimostra che per la stampa è possibile un futuro net-zero, a condizione che vengano adottate soluzioni più efficienti in termini di consumo energetico, a casa come in ufficio, e che si riducano le emissioni di anidride carbonica associate alla produzione di questi dispositivi – dichiara Tim Forman -. Per evitare che il cambiamento climatico abbia conseguenze sempre più drammatiche, è importante continuare a migliorare l’efficienza energetica delle apparecchiature e ridurre i consumi necessari per la loro produzione. L’analisi dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) dimostra che la mancata realizzazione di uno scenario di decarbonizzazione net-zero nel settore degli elettrodomestici potrebbe comportare un aumento del 100% nella frequenza di ondate di calore estremo e un aumento del 40% della siccità”.

Puntare su innovazione tecnologica e dispositivi più efficienti

Secondo Forman, sono tre i modi per attuare un cambiamento collettivo. Innanzitutto, puntare sull’innovazione tecnologica. Con la crescente diffusione di apparecchiature la riduzione delle emissioni di anidride carbonica dipenderà dal miglioramento degli standard di efficienza e dalla riduzione dell’intensità energetica legata alla produzione.
È inoltre necessaria una maggiore collaborazione a livello internazionale per promuovere l’utilizzo di apparecchiature più efficienti e migliorare il quadro per l’etichettatura dell’efficienza energetica. L’obiettivo è accelerare i tempi di eventuali piani d’azione, e ridurre i costi per i dispositivi più efficienti.

Ridurre consumi energetici ed emissioni di gas serra è possibile

Se ognuno di noi farà la propria parte, l’impatto positivo sul pianeta può essere significativo. Scegliendo la tecnologia a freddo, è possibile ridurre consumi energetici ed emissioni di gas serra. “Stiamo senza dubbio affrontando una crisi climatica mondiale e il futuro è nelle nostre mani – commenta Henning Ohlsson, Director of Sustainability di Epson Europe -. Possiamo controllare il modo in cui consumiamo l’energia e rendere il mondo un luogo migliore, dispositivo dopo dispositivo. La tecnologia inkjet è al momento la scelta più eco-sostenibile e anche i cambiamenti più piccoli possono fare una grande differenza nella protezione del permafrost”.

Mobilità elettrica e home working abbassano l’inquinamento urbano

Rendendo ‘elettrico’ anche solo l’1% dei veicoli privati più inquinanti in un centro urbano, la conseguente riduzione delle emissioni di CO2 sarebbe pari a quella ottenuta se una quantità 10 volte maggiore di veicoli scelti a caso fossero elettrici. Risultati analoghi si otterrebbero dall’applicazione dell’home working mirato ad evitare i viaggi sistematici da casa al lavoro anche solo di una porzione della popolazione. In città come Roma e Firenze, ma anche a Londra, il 10% delle strade più inquinate può arrivare a ‘ospitare’ quasi il 60% delle emissioni veicolari di tutta la città, e allo stesso modo, il 10% dei veicoli più inquinanti può arrivare a essere responsabile per ben più della metà delle emissioni.

È importante compiere scelte informate: lo conferma la scienza

Insomma, la mobilità elettrica e l’adozione dell’home working potrebbero abbassare i livelli di inquinamento ed emissioni nelle città. È quanto emerge da uno studio condotto dai ricercatori dell’Istituto di scienza e tecnologie dell’informazione del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isti) in collaborazione con il Dipartimento di ingegneria informatica, automatica e gestionale (Diag) della Sapienza Università di Roma. 

“Si tratta di una evidenza scientifica di quanto sia importante compiere scelte che siano informate”, commenta Mirco Nanni, ricercatore di Cnr-Isti che ha condotto lo studio e direttore del Kdd-Lab.

I divieti alla circolazione dovrebbero essere concepiti per chi inquina di più

“Misure come le cosiddette targhe alterne, ancora in voga fino a pochi anni fa, sono incredibilmente meno efficaci di politiche di riduzione delle emissioni che compiano invece scelte mirate – aggiunge Mirco Nanni -, come i più recenti divieti alla circolazione dei veicoli particolarmente inquinanti, o eventuali incentivi all’elettrico, che dovrebbero, però, essere concepiti per chi inquina di più”.

Ma chi inquina di più?

“Dal nostro lavoro emerge che chi si sposta in modo più prevedibile, come nel tragitto casa-lavoro, è responsabile di una maggiore fetta di emissioni di chi ha, invece, un comportamento di mobilità più erratico e imprevedibile”, spiega Luca Pappalardo ricercatore del Cnr-Isti e coordinatore dello studio.

Le politiche di riduzione delle emissioni veicolari devono essere mirate

Questo tipo di ricerche possono essere di aiuto ai decisori politici.
“Nel concepire politiche di riduzione delle emissioni veicolari che siano veramente efficaci e riescano, così, ad avere un impatto positivo sulle nostre città, bisogna conoscere il fenomeno in modo approfondito – sottolinea Matteo Böhm, dottorando della Sapienza e autore dello studio -. Solo con scelte informate, infatti, si può ‘sapere dove colpire’, e arrivare così a ottenere il massimo risultato. La nostra speranza è che studi come questo possano aiutare a raggiungere questo obiettivo”.

La pausa pranzo degli italiani: cambiamenti e desideri

Passata l’emergenza Covid, gli italiani hanno ripreso gran parte delle loro abitìni, anche per quanto riguarda la convivialità e la tavola. Secondo l’indagine dell’Osservatorio CIRFOOD DISTRICT, oggi i nostri connazionali sono ritornati a mangiare fuori casa anche per motivi di svago: più del 65%, infatti, dichiara di pranzare o cenare away from homeper ragioni diverse dal lavoro almeno due o tre volte al mese, aspetto che rimarca il desiderio di tornare a vivere momenti “live”. Ma cosa desiderano le persone quando mangiano fuori o a casa? L’analisi mette in luce tre macro tendenze. La prima è la ricerca degli ingredienti e delle materie prime, che rappresenta un fattore determinante: si richiede infatti qualità, italianità e stagionalità. Si presta inoltre attenzione alle caratteristiche nutrizionali degli alimenti: in particolare si guarda a cibi light e “free from” (ad esempio senza lattosio o glutine, zuccheri e sale). Il tutto sempre ricercando un buon rapporto qualità/prezzo – aspetto rilevante e irrinunciabile per 1 italiano su 4.

A casa, ma non solo

L’analisi riferisce che rispetto al periodo pre Covid c’è una quota di italiani che continua a vivere la propria pausa pranzo tra le mura domestiche. Questa rappresenta la tendenza in maggiore crescita con un + 31% rispetto al 2019. “Le progressive aperture che finalmente ci stanno portando a una vera normalità scardineranno questa situazione, ma alcune grandi organizzazioni ancora hanno lo smart working come modello organizzativo prevalente, per cui c’è ancora una parte di lavoratori che consuma la pausa pranzo a casa”, commenta Silvia Zucconi, responsabile Market Intelligence di Nomisma.
Una quota altrettanto elevata di dipendenti, tuttavia, consuma il pranzo nel ristorante aziendale, se disponibile, o nella ristorazione convenzionata con l’azienda. In particolare, tra coloro che lavorano in imprese che erogano questo servizio, 8 su 10 scelgono il ristorante aziendale.

I desiderata degli italiani

Dall’indagine si rileva la richiesta di una maggiore attenzione nei confronti dell’ambiente, durante la pausa pranzo nel ristorante aziendale o convenzionato, in particolare nella ricerca di confezioni con materiali riciclati e in un minore utilizzo della plastica (citato dal 59% di coloro che frequentano un ristorante aziendale e dal 43% di chi pranza in un ristorante convenzionato). 
Una considerevole percentuale di dipendenti, inoltre, vorrebbe che ci fossero specifiche informazioni relative all’impatto ambientale delle singole portate (72% e 53%). 
Tra i desiderata anche la presenza di portate pensate per soddisfare i diversi stili alimentari (60% e 47%) e per chi soffre di intolleranze (64% e 39%). 

Fatturato di partite Iva e aziende: nel 2021 +624 miliardi 

Buone notizie per le aziende e partite Iva italiane: nel 2021 il fatturato di Pmi e professionisti italiani è aumentato di 624 miliardi di euro, il 25% in più rispetto al 2020. Il record è raggiunto nel mese di dicembre, quando sono stati ‘incassati’ oltre 120 miliardi aggiuntivi. Una crescita trainata anche dalla corsa delle attività manifatturiere (+35%), ma è boom soprattutto per le costruzioni (+37%) e le attività immobiliari (+18%). A livello territoriale, le variazioni più importanti si sono registrate in Emilia-Romagna, in Friuli-Venezia Giulia e in Sicilia. Nel Lazio, unica regione che non ha raggiunto la crescita in doppia cifra, aziende e partite Iva hanno incassato solo il 9% in più. È quanto emerge dall’analisi del centro studi di Unimpresa, che ha elaborato i dati del dipartimento delle Finanze relativi alla fatturazione elettronica. 

Le imprese di costruzioni registrano l’incremento più importante: +37,5%

Tra i comparti, sono le costruzioni ad avere registrato l’incremento di fatturato più importante (+37,5%), grazie ai diversi bonus per l’edilizia e alle attività immobiliari connesse alle costruzioni, che hanno fatto segnare un +17,9%. È andata bene anche per le attività manifatturiere (+35,7%), e per le imprese che si occupano di estrazione di minerali da cave e miniere (+32,9%).  Le attività professionali, scientifiche e tecniche hanno segnato una variazione positiva del 25,9%, e l’istruzione del 10%. Sotto quota 20% si attestano il commercio all’ingrosso e al dettaglio (+15,4%), e la fornitura di acqua e reti fognarie (+16,8%), mentre in zona rossa figurano le attività di famiglie e le convivenze (colf, badanti) con un -50,1%, l’area dell’amministrazione pubblica e della difesa (-16,5%), oltre le attività artistiche e sportive (-3,6%)

Dal +38,9% in Emilia-Romagna al +9,5% nel Lazio

A livello territoriale, la regione che evidenzia il risultato migliore è l’Emilia-Romagna, con un incremento del 38,9%, seguita dalla provincia di Trento, con il 33,4%, la Valle d’Aosta (30,6%), il Friuli Venezia Giulia (28,2%), la Sicilia (27,1%), la Liguria (27,9%), e poi, Marche (26,9%), Molise (26,8%), Calabria (25,3%), Veneto (24,5%), Puglia (24,4%), Campania (23,1%), Toscana (23,0%), Lombardia (22,7%), Umbria (22,6%), Basilicata (22,5%), Abruzzo (21,3%), Sardegna (20,5%), Piemonte (19,4%), provincia di Bolzano (18,0%). Fanalino di coda, unica regione che non ha raggiunto la doppia cifra per la crescita, è il Lazio (9,5%).

Una ripresa economica minacciata dalla guerra tra Russia e Ucraina

Nei dati fiscali di imprese e professionisti, osserva l’associazione, “’c’è dunque la fotografia esatta della robusta ripresa economica del nostro Paese, cresciuta progressivamente negli scorsi mesi, ma seriamente minacciata, adesso, dal protrarsi della guerra tra Russia e Ucraina”.
Se nei mesi di gennaio e febbraio 2021, riporta Adnkronos, l’imponibile risultava ancora in calo, rispettivamente con 16,5 miliardi in meno e 2,6 miliardi in meno rispetto a gennaio e febbraio 2020, quando ancora non era esplosa la pandemia da Covid-19, nei 10 mesi successivi il segno è stato sempre positivo.

Consumatori e trasformazione digitale, nuove regole per le Pmi

Secondo un’indagine Istat, l’80% delle imprese italiane con almeno 10 addetti si colloca ancora a un livello ‘basso’ o ‘molto basso’ di digitalizzazione, e un numero ridotto di Pmi ha avviato vendite online. Ma dai risultati del sondaggio condotto da Vista sulle abitudini dei consumatori italiani emerge che a causa della pandemia, quasi il 90% ha acquistato online molto più di prima. Sebbene fare acquisti nei piccoli negozi di quartiere sia un’esperienza gradevole per molti (85%), una percentuale significativa (35%) riconosce che doversi recare nei negozi fisici rappresenta spesso un inconveniente.
Soprattutto per la mancanza di disponibilità degli articoli cercati (27,5%), la preoccupazione di ritrovarsi vicino a persone affette da Covid-19 (23,5%), le code per pagare (23%), o gli orari di attività, non sempre adeguati alle esigenze dei consumatori (16,5%).

Svantaggi e vantaggi dello shopping online

Quanto alle principali cause di frustrazione riscontrate durante lo shopping online, i consumatori evidenziano l’impossibilità di toccare i prodotti prima di acquistarli (50%), parlare con qualcuno che possa fornire consigli (21%), e acquistare i prodotti delle piccole imprese rive di una presenza online.
Per quanto riguarda i vantaggi, gli italiani danno maggiore importanza ai fattori quali la possibilità di fare acquisti comodamente da casa (34%), procurarsi prodotti di diverso tipo senza recarsi in più luoghi (22%), confrontare i prezzi e scegliere ciò che si adatta meglio alle proprie tasche e necessità (18,5%), gestire una lista dei desideri o un carrello della spesa virtuale per un lungo periodo fino a quando non si è pronti ad acquistare (5,5%).

L’alfabetizzazione digitale è necessaria alle piccole imprese

Per questo motivo, per il 93% degli intervistati è diventato quasi indispensabile poter trovare le piccole imprese su Internet. Tuttavia, essere presenti sul web non basta. “L’alfabetizzazione digitale è necessaria, certo, ma richiede tempo e impegno di cui molti proprietari di piccole imprese non dispongono – dichiara Richard Moody, direttore generale di Vista per l’Europa centrale, settentrionale e meridionale -. Per fortuna le Pmi non sono sole, Vista si propone come partner strategico per gli imprenditori e le piccole imprese che hanno bisogno di assistenza con la realizzazione dei prodotti per il marketing, sia fisici sia digitali”.

I 5 settori delle Pmi digitalizzate

Vista ha elaborato una classifica dei primi 5 settori in cui le piccole imprese e gli imprenditori hanno ordinato con più frequenza prodotti per il marketing, o hanno contrattato servizi web o consulenze digitali: servizi sanitari e sociali (17%), sport e fitness (11,9%), edilizia e ristrutturazioni (11%), arte e intrattenimento (7,3%), agricoltura e allevamento (7%).
“Prendersi cura di sé, in tutte le forme, è stata una priorità per molti consumatori durante e dopo la pandemia – aggiunge Moody -. Non stupisce, quindi, osservare la presenza in cima alla classifica di imprese legate alla salute fisica e mentale, alla cura del corpo, della casa e degli spazi in cui viviamo, o al cibo che consumiamo”.

Assegno unico, già richiesto per oltre 7 milioni di figli

L’assegno unico e universale è già stato richiesto per 7.259.181 figli. Le domande complessive inviate all’Inps sono state, da inizio anno a oggi, 4.497.281. Ma c’è ancora tempo fino al prossimo 30 giugno per richiedere anche gli arretrati, calcolati a ritroso dal marzo 2022. La quasi totalità delle domande, riporta Adnkronos, è stata elaborata in modo automatizzato. Quelle in esame alle sedi per verifiche non automatizzabili sono solo lo 0,5%. Nessuna documentazione è stata chiesta ai cittadini e tutte le informazioni necessarie alla istruttoria sono state reperite da archivi Inps o di altri enti collegati in interoperabilità con Inps (Anpr, Agenzia entrate, ministero dell’Interno, Miur etc). Come riferisce Adnkronos, solo per meno dello 0,5% delle domande è stata chiesta della documentazione ai cittadini a comprova del possesso dei requisiti, quando tale documentazione non è stata reperita in automatico dalle banche dati della pubbliche amministrazioni.

Come funzionano i pagamenti?

Per quanto riguarda i pagamenti dell’assegno, l’Inps sta elaborando quelli relativi alle domande pervenute ad aprile, che sono state già oltre 392mila. I pagamenti per domande di aprile saranno avviati nella prima settimana di maggio, insieme ai rinnovi degli assegni per le domande pervenute in precedenza. Dopo il 30 giugno l’assegno decorrerà dal mese successivo a quello di presentazione e il pagamento è effettuato dal mese successivo a quello di presentazione della domanda.

Come si può presentare la domanda?

L’assegno unico universale (Auu) viene versato alle famiglie attraverso una procedura semplice e innovativa. La domanda può essere presentata sul sito web Inps, oppure tramite patronato o contact center. Per le domande presentate entro il 30 giugno 2022 saranno pagati gli assegni, se spettanti, a partire da marzo. Non è necessario avere un Isee al momento della domanda, in assenza di tale indicatore, o in presenza di un Isee superiore ai 40mila euro, l’assegno è corrisposto comunque, ma calcolato all’importo minimo previsto dalla norma. I percettori di rdc non devono presentare domanda, ma sarà loro riconosciuto d’ufficio l’assegno da Inps. La procedura è semplice, e per accedervi l’utente deve avere lo Spid. L’utente troverà quindi precompilati nella prima pagina (dopo la home page che presenta i vari applicativi che permettono la domanda e la sua gestione) i suoi dati anagrafici. Deve quindi inserire i dati dei figli, un figlio alla volta. Le pagine da compilare sono al massimo 3, sono navigabili, e l’utente può sempre tornare in una precedente per modificare i dati già inseriti. 

Tra 2019 e 2021 al Sud -125mila occupati

La pandemia ha reso il Sud ancora più debole sotto il profilo occupazionale. Il calo degli occupati, passati da 6.093mila del 2019 a 5.968mila del 2021, per una perdita di circa 125mila unità (-2,1%), è stato solo in parte attenuato dal boom del settore edile, l’unico a registrare un saldo positivo (+60mila occupati). Secondo il dossier Il lavoro nel Mezzogiorno tra pandemia e fragilità strutturali, della Fondazione studi consulenti del lavoro, alla base della contrazione occupazionale ci sono le criticità di un’economia e di un sistema lavoro che non riescono a invertire la parabola discendente. Ma il dossier evidenzia anche la depressione dell’offerta di lavoro e il deterioramento della già bassa qualità dello stesso.

Su 10 contratti 4 sono temporanei o part time

Nel biennio 2019-2021 le persone in cerca di lavoro al Mezzogiorno sono diminuite di 129mila unità, -9,9% rispetto al -3,6% del Centro Nord. Il tasso di inattività tra la popolazione in età lavorativa è passato dal 45,4% del 2019 al 46,2% del 2021, collocandosi sopra il resto del Paese di 16,3 punti percentuali.  La crisi, inoltre, ha evidenziato la precarizzazione dell’occupazione meridionale. Nel 2021, su 10 contratti attivati 4 risultano temporanei e part time (nel Centro Nord la percentuale è del 28,1%). Di contro, si è ridotta la quota delle assunzioni con contratti a tempo indeterminato, passata dal 32,1% del 2014 al 17,1% del 2021.

Al Sud si amplia il divario di genere

Ma un altro fattore è l’impoverimento del lavoro. Il calo degli stipendi, insieme alle difficoltà vissute dai lavoratori autonomi, durante la pandemia ha incrementato il numero di famiglie in situazioni di povertà anche tra gli occupati.  Al Sud, poi, diversamente dal resto d’Italia, si amplia il divario di genere. Nel biennio 2019-2021 le donne hanno registrato una perdita occupazionale (-2,7%) di gran lunga superiore a quella degli uomini (-1,7%), e in generale, il tasso di occupazione femminile nel Mezzogiorno si attesta al 33%, -23,8% di quello maschile, e 25 punti sotto quello del Centro Nord.
Ma non è tutto: la questione giovanile nel Mezzogiorno è da anni una vera e propria emergenza nazionale.

Un diffuso atteggiamento di disaffezione al lavoro

Alle ataviche criticità del contesto meridionale (scarsità di opportunità lavorative, precarietà del lavoro, calo demografico), si è aggiunto un diffuso atteggiamento di disaffezione e allontanamento dal lavoro. Tra il 2010 e il 2020 al Sud si è registrato un calo di quasi 400mila occupati tra i giovani con meno di 35 anni, soprattutto tra i giovanissimi di 15-24 anni.
“L’economia meridionale negli ultimi vent’anni ha visto crescere sempre più il proprio divario rispetto al resto del Paese – spiega Rosario De Luca, presidente di Fondazione Studi -. In tale contesto, qualsiasi politica occupazionale rischia di avere il fiato corto, in assenza di interventi che permettano un vero rilancio del Mezzogiorno”.

Salute, il 53% degli italiani si informa su Internet

Per avere informazioni sulla salute gli italiani non fanno riferimento al medico o allo specialista. Almeno, non tutti. Il 53% dei nostri connazionali tra i 16 e i 74 anni di età preferisce usare Internet. In pratica una persona su due. Si tratta di un dato appena leggermente inferiore alla media europea, che si attesta al 55%. A confermarlo sono gli ultimi dati Eurostat, l’Ufficio statistico dell’Unione europea, riferiti all’anno 2021.
In particolare, su Internet i cittadini italiani ed europei cercano notizie relative alle malattie o alle cure, ma anche consigli per migliorare in generale il proprio benessere fisico. Ad esempio, cercando online informazioni e consigli sull’alimentazione. 

Un’abitudine sempre più diffusa in tutta Europa: +26% in dieci anni

Un’abitudine sempre più diffusa in tutta Europa, se si considera che nel 2011 la quota di europei che usavano il web per trovare informazioni sanitarie era del 38%, il 17% in più rispetto a dieci anni fa.  E in Italia nell’ultimo decennio il salto in avanti è stato addirittura di 26 punti percentuali: era il 27% nel 2011, e nel 2021 sale al 53%. Nell’ultimo decennio l’aumento è avvenuto in tutta Europa, anche se, secondo i dati diffusi da Eurostat, il salto più elevato è stato registrato a Cipro (+46% rispetto al 2011), seguita dalla Repubblica Ceca (+33), da Malta (+32) e Spagna (+31).

In Finlandia l’80% dei cittadini cerca risposte online su salute e benessere

La percentuale di persone che cercano informazioni sanitarie online per scopi privati continua comunque a essere molto diversa tra gli Stati membri. La quota maggiore, nel 2021, è stata registrata in Finlandia (80%), seguita da Paesi Bassi e Norvegia (entrambe con il 77%), Danimarca (75%) e Cipro (74%). Per le quote più basse bisogna guardare alla Bulgaria (36%), alla Romania (40%), alla Germania (45%) e alla Polonia (47%), riferisce Ansa.

La banca dati sanitaria della UE

Insomma, i cittadini della UE cercano online informazioni sanitarie relative a lesioni, malattie, alimentazione, migliorare la salute e il benessere. 
La pagina panoramica di Eurostat, sulla salute funge da punto di accesso a un’ampia gamma di dati disponibili, incentrati sulla salute pubblica e sulla salute e sicurezza sul lavoro. La sezione dedicata dà accesso diretto alla banca dati sanitaria, che contiene sezioni su stato di salute, determinanti sanitari, assistenza sanitaria, disabilità, cause di morte, e salute e sicurezza sul lavoro.  Se si cercano dati con analisi di accompagnamento, si può trovare la sezione Eurostat Statistics Explained, che contiene un elenco di tutti gli articoli e le pubblicazioni relative alla salute.

Backup, un’azienda su quattro non fa nulla

Se si pensa che i nostri dati rappresentano uno dei “tesori” più importanti che abbiamo, anche solo immaginare che un’azienda italiana su quattro non abbia nessuna soluzione di backup sembra impossibile. Eppure è proprio così. Lo scenario emerge dall’indagine BVA Doxa per Aruba in occasione del World Backup Day, giornata che cade ogni 31 marzo. 7 aziende ogni 100 sono vittime di una perdita di dati, ciononostante quasi la metà di queste non sa quantificare economicamente il danno subito Il 27% delle piccole e medie imprese italiane non possiede un backup, dato che sale fino al 43% tra le sole piccole imprese.

Cosa fanno le imprese tricolore

Solo il 73% delle aziende intervistate ha dichiarato di disporre di una soluzione di backup, dato che scende al 57% quando si parla di piccole imprese e che sale ad un più incoraggiante 87% quando ci si interfaccia con le medie imprese. Tra quanti utilizzano soluzioni di backup in azienda, il 62% dei rispondenti ne dispone da oltre 5 anni ma è solo il 3% ad essersene dotato nel corso del 2021, sintomo che l’accelerazione della digital transformation registrata nel corso degli ultimi due anni non ha determinato un aumento in parallelo della attenzione alla conservazione dei dati e alla propria sicurezza digitale.
In dettaglio, è il 57% delle aziende intervistate a disporre di un backup in cloud, ossia la soluzione grazie alla quale i file vengono criptati e sincronizzati in tempo reale sui server del data center che ospita il servizio, rendendo il backup pienamente sicuro. Riguardo al cloud backup, le piccole imprese risultano a sorpresa più virtuose: è il 60% ad esserne dotato a fronte del 54% delle medie imprese.

C’è ancora chi non è interessato

Tra l’altro, è davvero sorprendente che tra quanti non hanno un sistema di backup il 71% non è interessato ad introdurne uno in azienda neanche nel lungo periodo. Le ragioni di questa scarsa propensione risiedono principalmente nel ritenere di avere pochi dati da salvaguardare o nel non trattare dati sensibili, dimostrando quindi una scarsa percezione del potenziale pericolo. Invece, a conferma dei rischi, 7 aziende su 100 hanno sperimentato una perdita di dati e per il 34% di queste la causa scatenante è riconducibile ad un sistema di backup inefficace o non adeguato. In media, le aziende coinvolte da una perdita di dati hanno subito un downtime di quasi 2 giorni ed il 43% di queste non saprebbe quantificare economicamente i danni causati dall’incidente. La metà degli intervistati, invece, dichiara in modo netto che la perdita di dati ha causato un rallentamento sul lavoro (52%) e delle conseguenze economiche seppur non facilmente quantificabili (43%).